A Verona si lavora in media 251,7 giorni all’anno, più della media nazionale (246,1) ma meno del dato medio veneto (256,1). Lo evidenzia l’ultima analisi dell’Ufficio studi della CGIA di Mestre, che conferma un’Italia spaccata tra Nord e Sud, con forti differenze in termini di presenza sul lavoro, produttività e stipendi.
Nord più presente sul lavoro, Sud frenato da irregolarità e precarietà
Nel 2023, gli occupati del Nord hanno timbrato mediamente il cartellino per 255 giorni, contro i 228 del Mezzogiorno. Una differenza di 27 giornate lavorative che, secondo l’analisi, è causata principalmente da lavoro sommerso e alta incidenza di contratti stagionali o part time involontari nelle regioni del Sud, in particolare nei servizi, agricoltura e turismo. In queste aree, inoltre, molte ore lavorate in modo irregolare sfuggono alla rilevazione statistica.
Verona nella fascia alta, ma lontana dai vertici veneti
Con i suoi 251,7 giorni medi lavorati, Verona si colloca al 35° posto nella classifica nazionale delle province. A dominare sono Lecco (264,9 giorni), Biella (264,3) e Vicenza (263,5). Nella stessa regione, fanno meglio anche Padova, Treviso, Bergamo e Monza-Brianza, tutte sopra i 262 giorni. In coda alla graduatoria nazionale figurano Foggia (213,5), Trapani (213,3) e Vibo Valentia (193,3).
Più giornate lavorate, più reddito: ma Verona resta sotto la media del Nord
Dove si lavora di più si guadagna anche di più: al Nord la retribuzione media giornaliera nel 2023 era di 104 euro lordi, al Sud solo 77 euro. A Verona, il salario medio annuo è stato pari a 24.239 euro, con una media giornaliera di 96,30 euro, posizionando la provincia al 30° posto nazionale per retribuzione. Il confronto è netto con realtà come Milano, dove si superano i 34mila euro lordi annui, oppure Modena, Parma e Bologna, che viaggiano attorno ai 27mila euro, trainate da settori ad alto valore aggiunto come automotive, biomedicale e meccanica di precisione.
Il nodo della contrattazione decentrata
Secondo CGIA e CNEL, il problema dei “working poor” non si risolve solo con l’introduzione di un salario minimo, ma attraverso una revisione strutturale dei contratti, in particolare nel rafforzamento della contrattazione di secondo livello. In Italia quasi il 99% dei lavoratori dipendenti del privato è coperto dalla contrattazione collettiva nazionale, ma solo il 23,1% delle imprese con più di 10 addetti applica accordi aziendali o territoriali. Questo coinvolge circa 5,5 milioni di lavoratori, ma non tutti beneficiano pienamente di questi accordi.
Il commento della CGIA
L’associazione sottolinea l’urgenza di spingere sulla contrattazione decentrata, premiando aziende e lavoratori attraverso incentivi fiscali, obiettivi di produttività e redistribuzione del valore generato. Un modello che potrebbe ridurre le disparità, specie nelle aree più produttive del Nord, dove il caro vita e l’inflazione hanno eroso fortemente il potere d’acquisto.